Ultimi chiarimenti della Corte di Giustizia Europea circa le nozioni di orario di lavoro e tempo di riposo| Studio Legale Menichetti

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Lo scorso 9 marzo, nei casi C-344/19 e C-580/19, la Corte di Giustizia Europea ha espresso importanti principi utili a chiarire il non facile confine esistente tra i concetti di “orario di lavoro” e “periodo di riposo” previsti dalla Direttiva 2003/88.

Le cause erano state avviate da due lavoratori (l’uno sloveno e l’altro tedesco) che chiedevano di qualificare come orario di lavoro (e quindi di vedersi retribuire) dei periodi di reperibilità che li obbligavano, in caso di richiesta d’intervento, a iniziare la prestazione di lavoro entro breve tempo (un’ora nel caso del lavoratore sloveno e venti minuti nel caso del lavoratore tedesco).

I giudici nazionali sottoponevano alla Corte di Giustizia Europea una questione pregiudiziale, così sintetizzabile: può considerarsi orario di lavoro il periodo in cui un lavoratore, seppur non obbligato a essere fisicamente nel luogo di lavoro, è soggetto comunque a limitazioni che gli rendono difficile dedicarsi ai propri interessi personali e sociali?

Nelle fattispecie, le limitazioni in questione erano rappresentate dal tempo che il lavoratore doveva impiegare per riprendere servizio e dalla frequenza con cui quest’ultimo doveva attendersi di essere convocato durante i periodi di reperibilità.

Le risposte della Corte di Giustizia Europea sono state le seguenti: il periodo di reperibilità non può qualificarsi come orario di lavoro se il termine imposto al lavoratore per rimettersi al lavoro è ragionevole al punto da consentirgli di pianificare le proprie occupazioni personali e sociali (tant’è che la Corte ha affermato che se il “termine imposto al lavoratore per rimettersi al lavoro è limitato ad alcuni minuti […] in linea di principio, il periodo di reperibilità deve considerarsi nella sua interezza, come «orario di lavoro»”); quanto alla frequenza media delle prestazioni effettive normalmente realizzate dal lavoratore durante i periodi di reperibilità, essa dev’essere considerata solo ove possa essere oggetto di una stima oggettiva (secondo la Corte di Giustizia se la media di interventi è elevata si ha orario di lavoro poiché viene meno per il lavoratore la libertà di gestire liberamente il tempo durante i suoi periodi d’inattività).

La Corte di Giustizia ha ricordato che le nozioni di «orario di lavoro» e di «periodo di riposo» costituiscono nozioni del diritto dell’Unione e che nemmeno gli Stati membri possono definirne unilateralmente la portata.

Assumono particolare importanza i criteri qualificatori dettati sul tema dalla Corte di Giustizia; criteri che d’ora innanzi i giudici nazionali saranno tenuti ad applicare per la risoluzione delle numerosissime controversie che possono avere a oggetto il tema dell’orario di lavoro.

I principi di diritto espressi dalla Corte potranno, inoltre, trovare applicazione in ogni tipologia di lavoro e specialmente nel lavoro svolto a distanza con l’ausilio di mezzi tecnologici (area, questa, che, va detto, non interessava la posizione dei lavoratori che hanno avviato le cause nazionali giunte sino avanti la Corte Europea).

È nel lavoro a distanza, più che in altri rapporti, che si pone, in particolare, il problema di stabilire contrattualmente dei periodi di reperibilità come di disconnessione.

Nel perfezionamento di eventuali accordi collettivi sarà importante considerare i criteri espressi dalla Corte di Giustizia, valutando se i tempi di risposta richiesti a un lavoratore in fascia di reperibilità non siano tali da riqualificare in orario di lavoro un periodo di tempo, magari, ritenuto come di riposo.
È, infine, di particolare interesse la sentenza in commento nella parte in cui precisa che i periodi di reperibilità, anche ove siano qualificati come «periodi di riposo», non possono comunque essere troppo lunghi o frequenti al punto da costituire un rischio per la sicurezza o la salute del lavoratore, venendo qui in rilievo l’obbligo del datore di lavoro di proteggere i lavoratori contro i rischi psicosociali, posto che lunghi periodi di reperibilità, seppur definibili come “periodi di riposo” e comportanti un debole livello di stress, possono impedire al lavoratore di sottrarsi pienamente al proprio ambiente di lavoro per un numero sufficiente di ore consecutive, con potenziali danni alla salute per un eccessivo carico psicologico. (MB)

 

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