Con la recente sentenza n. 21621/2018, la Corte di Cassazione è intervenuta nuovamente sulla vexata quaestio relativa alla legittimità del ricorso, da parte del datore di lavoro, ad un’agenzia investigativa per vigilare sull’attività lavorativa del dipendente.
Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte riguardava l’impugnazione d’un licenziamento per giusta causa intimato per aver un dipendente, nello svolgimento delle sue mansioni d’addetto al sistema di rilevazione delle presenze in servizio, fatto fittiziamente figurare la propria presenza sul posto di lavoro in diverse giornate lavorative, secondo quanto era emerso in sede di controlli eseguiti dal datore di lavoro a mezzo di un’agenzia d’investigazione.
Nei primi due gradi di giudizio, la domanda d’impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore era stata respinta.
Dello stesso avviso non è stata, invece, la Suprema Corte, che, accogliendo il motivo di ricorso per cassazione deducente la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3, L. n. 300/1970, ha ritenuto che “il controllo delle guardie particolari giurate, o di un’agenzia investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera […], ma debba limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione”.
Con riferimento alla portata dei succitati artt. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori, la Suprema Corte ha rilevato che tali norme, che “delimitano, a tutela della libertà