Il licenziamento ritorsivo dopo il Decreto Whistleblowing| Studio Legale Menichetti

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A prima vista, si potrebbe forse ritenere che il decreto legislativo 10 marzo 2023, n. 24, noto come decreto whistleblowing ed emesso a tutela dei dipendenti che siano venuti a conoscenza di condotte illecite in occasione della prestazione della loro attività lavorativa, abbia introdotto innovazioni concernenti l’onere probatorio gravante sul lavoratore che lamenti di aver subito un licenziamento ritorsivo (o per rappresaglia), che come è noto, viene sanzionato con la reintegrazione, ai sensi dell’ art. 18, comma 1 legge 300/70 e dell’ art. 2, comma 1 d.lgs. 23/2015, a condizione che il lavoratore dimostri, ex art. 1345 c.c., che l’intenzione ritorsiva sia stata unica ed esclusiva nel determinare il recesso datoriale (cfr., ex multis, Cass. ord. 3 agosto 2023, n. 23702).

Una prova piuttosto difficile, che non viene richiesta nei casi di discriminazione (per motivi di carattere politico, religioso, sindacale, ecc.), nei quali il dipendente discriminato gode invece di un regime probatorio basato su presunzioni a lui favorevoli.

In effetti, questa “minore tutela” del lavoratore che subisce una ritorsione invece che una discriminazione,  potrebbe essere considerata, di primo acchito, non giustificata o comunque superata sulla base del nuovo testo dell’art 4 della legge 604/1966, che, così come novellato dall’art. 24, terzo comma del decreto whistleblowing, recita: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza a un sindacato, dalla partecipazione ad attività sindacali o conseguente all'esercizio di un diritto ovvero alla segnalazione, alla denuncia all'autorità giudiziaria o contabile o alla divulgazione pubblica effettuate ai sensi del decreto legislativo attuativo della direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2019, è nullo».

Alle previsioni di nullità in precedenza previste, relative, tra l’altro, ai recessi dovuti a ragioni di credo politico, fede religiosa, appartenenza e/o attività sindacale, a decorrere dal 15 luglio 2023, è stato quindi aggiunto il riferimento al licenziamento conseguente all’esercizio di un diritto o alla segnalazione, alla denuncia – all’autorità giudiziaria o contabile – o, ancora, alla divulgazione pubblica effettuate ai sensi del D.lgs. 24/2023.  Quindi anche il recesso datoriale che costituisce una reazione all’esercizio di un proprio diritto da parte del dipendente – ed ha quindi natura ritorsiva – è oggi da considerarsi discriminatorio al pari, degli altri licenziamenti previsti dalla norma sopra citata e soprattutto al pari dei recessi datoriali correlati a whistleblowing.

E, per quest’ultimo tipo di licenziamenti, il secondo comma dell’art. 17 del d.lgs. 24/2023 stabilisce l’inversione della prova a vantaggio del whistleblower, prevedendo la presunzione che i licenziamenti  siano stati posti in essere a causa della “segnalazione, della divulgazione pubblica o della denuncia all'autorità giudiziaria o contabile”, con onere a carico del datore di lavoro di dimostrare che la sua condotta è dovuta a ragioni estranee alla segnalazione, alla divulgazione pubblica o alla denuncia.

Se non che il recesso datoriale che costituisce una reazione all’esercizio di un proprio diritto da parte del dipendente – e non alla denuncia, segnalazione o divulgazione da parte del predetto di violazioni di legge  nell’interesse della collettività -  non è stato ricompreso anche dall’art. 2 comma 1, lettera m) del d. lgs. 24/2023 tra le ipotesi che possono far presumere il contegno datoriale ritorsivo, in quanto la predetta norma  definisce, per l’appunto,  come “ritorsione”  da presumersi agli effetti del decreto whistleblowing “qualsiasi comportamento, atto od omissione, anche solo tentato o minacciato, posto in essere in ragione della segnalazione, della denuncia all'autorità giudiziaria o contabile o della divulgazione pubblica e che provoca o può provocare alla persona segnalante o alla persona che ha sporto la denuncia, in via diretta o indiretta, un danno ingiusto”.

Il riferimento alle sole ipotesi della segnalazione, della denuncia all’autorità giudiziaria o contabile e della divulgazione pubblica, ma non all’esercizio di un diritto, fa quindi ritenere che sulla base della nuova normativa chi esercita un proprio diritto e viene, in conseguenza di ciò, licenziato subisce sì una discriminazione ma senza godere di tutti i vantaggi previsti dalla tutela antidiscriminatoria e senza quindi vedersi applicato né l’inversione dell’onere della prova (art. 17, secondo comma d.lgs. 24/2023), né la presunzione del danno da ritorsione (art. 17, terzo comma, d.lgs.cit.), né la presunzione di ritorsività della serie di atti e condotte datoriali previste dal quarto comma dell’art. 17 de quo (tra le quali il licenziamento, le sanzioni disciplinari, le mancate promozioni, le modifiche di funzioni e orario di lavoro, la sospensione della formazione, le note di merito negative, l’ostracismo, la mancata conversione o il mancato rinnovo del contratto a termine, l’annullamento di licenze e permessi, la richiesta di sottoposizione ad accertamenti psichiatrici o medici).

Insomma: è cosa buona e giusta – comunque dovuta in attuazione delle direttive UE – la disciplina prevista dal decreto whistleblowing a tutela dei dipendenti che siano venuti a conoscenza di condotte illecite in occasione della prestazione della loro attività lavorativa; ma la modifica, come sopra riportata, dell’art. 4 della legge 604/1966 non sembra incidere affatto sul regime probatorio inerente il licenziamento ritorsivo del dipendente che ha denunciato, o lamentato, un fatto illegittimo compiuto a suo danno. Per il lavoratore, che non sia effettivamente whistleblower, la suddetta modifica dell’art. 4 legge 604/66 - siccome introdotta dal decreto whistleblower e  nonostante il riferimento al licenziamento “conseguente all'esercizio di un diritto” - appare alla fine inutiliter data. (OC)

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