Sospensione licenziamenti collettivo e individuale per g.m.o. per l’emergenza da Covid-19| Studio Legale Menichetti

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Tra i prioritari obiettivi che, a metà marzo scorso, il Governo s’era posto per attutire l’impatto violento e veloce della diffusione del COVID-19 v’era quello di preservare i posti di lavo-ro, inevitabilmente coinvolti dalla riduzione o interruzione delle attività economiche.

Per scongiurare il massiccio ricorso, da parte delle imprese, a licenziamenti per ragioni economiche, il Legislatore ha fatto divieto ai datori di lavoro, per un determinato periodo di tempo (inizialmente di 60 giorni dall’entrata in vigore del D.L. 18/2020, cd. decreto “Cura Italia”, ed aumentato a cinque mesi col decreto “Rilancio”, e quindi sino al 16 agosto), di recedere dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 L. 604/1966, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, e di avviare procedure di licenziamento collettivo, di cui agli artt. 4, 5 e 24 L. 223/1991.

Con la conversione in legge del decreto “Cura Italia”, avvenuta lo scorso 24 aprile, con L. n. 27, il divieto di licenziamento per motivi oggettivi, sia individuale che collettivo, è stato confermato.

Col decreto “Rilancio” sono state apportate alcune modifiche alla norma in materia di sospensione dei licenziamenti colletti-vo individuale per giustificato motivo oggettivo (nel prosieguo, per brevità, indicato con l’acronimo g.m.o.).

Va premesso che l’art. 46 del decreto “Cura Italia”, a dispetto del suo originario titolo (“Sospensione delle procedure d’impugnazione dei licenziamenti”), non trattando affatto dell’impugnativa dei licenziamenti, in sede di conversione è sta-to correttamente rubricato in “Disposizioni in materia di licen-ziamenti collettivi e individuale per g.m.o.”.

Tale disposizione inibisce al datore di lavoro il potere di recedere dal rapporto (licenziare) per un periodo definito (cinque mesi), bloccando l’avvio o la prosecuzione delle procedure di licenziamenti collettivi e vietando il licenziamento individuale per motivo oggettivo.
Per cercare di non far perdere il posto di lavoro a nessun dipendente, il Governo ha stabilito, quindi, il divieto di licenziamento per alcune fattispecie, disponendo che - dal 17 marzo al 16 agosto - è precluso avviare procedure di licenziamento collettivo; che le procedure di licenziamento collettivo pendenti, avviate successivamente al 23 febbraio 2020, sono sospese; e che tutti i datori di lavoro, indipendentemente dal numero dei lavoratori, non possono intimare licenziamenti per motivi og-gettivi (ossia per ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento dell’impresa).

Quanto ai licenziamenti collettivi, il primo caso -disciplinato dagli artt. 4 e 5 L. 223/1991- riguarda le imprese sottoposte a CIGS, le quali, giunte al termine del periodo di copertura del trattamento integrativo salariale, siano costrette a prendere atto di non riuscire a garantire, tramite risanamenti o ristrutturazioni, il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi ed, al contempo, di non poter ricorrere a valide misure alternative.

Il secondo caso -disciplinato dall’art. 24 della stessa L. 223/1991- riguarda i datori di lavoro con più di 15 lavoratori, che, “in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività, intendano effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco temporale di 120 giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità nell’ambito del territorio di una stessa provincia”, anche se i recessi programmati siano frazionati, purché “siano comunque riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione”; tale caso comprende anche le imprese, come sopra dimensionate, che intendano cessare l’attività.

Per entrambe le fattispecie di licenziamento collettivo, l’avvio della relativa procedura è impedito, quindi, dal 17 marzo al 16 agosto.
Allo stesso modo, la prosecuzione di procedure avviate dopo il 23 febbraio – fatidica data che il Governo ha considerato come quella dell’epifania virale – è congelata sino al 16 agosto.

Non sembra esservi nessuna restrizione -nonostante il contra-rio parere di qualche isolato commentatore- per le procedure di riduzione collettiva del personale iniziate prima del 23 febbraio, che potranno concludersi anche nel predetto periodo; ciò, ovviamente, sul presupposto implicito che i motivi posti a base della decisione dell’impresa di ridurre il personale ritenuto in esubero al momento dell’avvio della procedura non abbiano alcun collegamento con la diffusione della pandemia da COVID-19, ma dipendano da ragioni radicate in epoca precedente.

Un emendamento in sede di conversione dell’art. 46 del decreto “Cura Italia” ha attenuato il divieto riguardante i recessi intimati nell’ambito d’una procedura di riduzione collettiva del personale, escludendo i licenziamenti intervenuti in presenza d’un cambio d’appalto, a seguito del quale il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto dall’appaltatore subentrante in virtù d’un obbligo di legge o derivante dal contratto collettivo o dal contratto d’appalto.

Al riguardo, se stiamo all’interpretazione letterale del testo dell’emendamento legislativo, non può sfuggire che i licenziamenti consentiti in presenza di cambio appalto siano solo quelli da cui consegua la riassunzione, da parte del nuovo appaltatore, dei lavoratori licenziati da quello uscente.

Tale lettura stride, però, con le norme di legge e con le previ-sioni di numerosi contratti collettivi, che, in caso d’avvicendamento d’imprese nella gestione d’un appalto, impongono all’impresa subentrante l’obbligo di prendere in carico i lavoratori che prestavano servizio nell’appalto stesso.

I primi commenti all’art. 46 nel testo emendato tendono a pri-vilegiare l’applicazione delle clausole sociali sul cambio appalto senza alcuna forma di restrizione, sicché l’impresa uscente potrà recedere dal rapporto di lavoro con il personale utilizzato nell’appalto perduto senza dover essere vincolata dall’effettivo adempimento dell’obbligo di riassunzione da parte del subentrante.

Passando ora al licenziamento individuale per ragioni oggetti-ve, l’art. 46 dispone che, sempre dal 17 marzo al 16 agosto, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per g.m.o. ai sensi dell’art. 3 L. 604/1966.
Sono sospese, altresì, sempre sino a metà agosto, le procedure di licenziamento per g.m.o. (anche quelle già avviate), che, ai sensi dell’art. 7 della stessa L. 604, i datori di lavoro, con un organico superiore alle 15 unità, devono rispettare se intendono licenziare un dipendente assunto prima del 7 marzo 2015 (data d’entrata in vigore del Jobs Act); procedura che consiste nell’espletamento d’un tentativo di conciliazione avanti appo-sita commissione istituita presso l’I.T.L. competente territorialmente.

Al riguardo, si prospetta un evidente problema concernente la sorte delle procedure di conciliazione avviate prima della data d’entrata in vigore del decreto “Cura Italia” (17 marzo) o, comunque, prima del 24 febbraio. Infatti, ai sensi della legge (legge Fornero) che introdusse tale procedura, il tempo che decorre tra il momento in cui il lavora-tore riceve la comunicazione dell’azienda, che lo informa dell’intenzione di licenziarlo, e l’intimazione del licenziamento all’esito del procedimento avanti la commissione di conciliazione è considerato periodo di preavviso lavorato (che, spesso, peraltro, il datore di lavoro preferisce non far lavorare al dipendente, erogandogli la relativa indennità sostitutiva).

Questo lasso temporale, tuttavia, rischia di dilatarsi a dismisura perché, nel frattempo (ancora prima che il decreto “Rilancio” di ieri prevedesse espressamente la sospensione di tali procedure “in corso”), sull’intero territorio nazionale gli Ispettorati del Lavoro avevano sospeso le convocazioni delle parti per l’emergenza epidemiologica.

In questo scenario, è lecito interrogarsi sui casi, non pochi, in cui il periodo di preavviso, previsto dal contratto collettivo di lavoro, s’esaurisca durante la sospensione delle convocazioni delle commissioni di conciliazione; è ragionevole ritenere che il datore di lavoro, impossibilitato ad intimare il recesso prima della convocazione dell’ITL o della conclusione della procedura, e comunque sino al 16 agosto, sarà costretto a tenere in for-za ad oltranza il lavoratore in esubero (magari, senza poterlo utilizzare), con connessi oneri retributivi e contributivi.

Passando ora a considerare i licenziamenti individuali esclusi dal temporaneo divieto dell’art. 46 del decreto “Cura Italia”, non sono stati interessati dal “blocco”:
- i licenziamenti disciplinari, sia per giusta causa che per g.m.s.;
- i licenziamenti per raggiungimento del limite massimo d’età pensionabile;
- i licenziamenti dei lavoratori domestici, il cui rapporto è risolvibile ad nutum, senza obbligo di motivazione e con il solo preavviso;
- i recessi dal contratto d’apprendistato, al termine del periodo formativo;
- i licenziamenti durante il periodo di prova (sempre che al lavoratore sia stato consentito, per la congruità del tempo in cui ha lavorato e le mansioni concretamente svolte, di compiere l’esperimento che forma oggetto del patto di prova: pertanto, se il lavoratore, per l’improvvisa sospensione o riduzione dell’attività aziendale dovuta all’attuale situazione emergenziale, non ha potuto dimostrare adeguatamente le proprie capacità professionali, al riavvio dell’attività il datore di lavoro dovrà consentirgli di riprendere la prova).
Non ricadono, invece, nell’alveo dell’art. 46, e del relativo temporaneo divieto, i licenziamenti determinati dal superamento del periodo di comporto stabilito dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro (tipologia di recesso, che, pur accostata da una parte della giurisprudenza al g.m.o., se ne di-scosta, costituendo una fattispecie del tutto autonoma, prevista dall’art. 2110 c.c.).

Al riguardo, rilevo come, ai sensi dell’art. 26 del decreto “Cura Italia”, sia il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva per coloro che abbiano avuto contatti con soggetti che hanno contratto il coronavirus sia il periodo di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva per coloro che abbiano fatto ingresso nel ns. Paese da zone a rischio epidemiologico siano, entrambi, equiparati a malattia ai fini della fruizione, da parte dei lavoratori interessati, del relativo trat-tamento economico; tale equiparazione non s’estende, però, al-la computabilità dei giorni d’assenza dal lavoro nel periodo di comporto, atteso che – per espressa previsione normativa – i giorni d’isolamento non sono conteggiati ai fini del periodo di comporto.

Così come, a maggior ragione, non possono conteggiarsi ai medesimi fini le assenze dal lavoro per infezione da coronavi-rus contratta in occasione di lavoro, che viene qualificata alla stregua d’infortunio sul lavoro.
Qualche dubbio si pone sull’applicabilità o meno dell’art. 46 del decreto “Cura Italia” al licenziamento individuale del dirigente, al quale, come è noto, non si applica il concetto di g.m.o., bensì un criterio di “giustificatezza”, normato dalla con-trattazione collettiva che regolamenta il rapporto di lavoro dirigenziale.

Stante il tenore letterale dell’art. 46 – il quale fa esplicito rife-rimento all’art. 3 della L. 604/1966, pacificamente non appli-cabile alla categoria dirigenziale (per espressa previsione dell’art. 10 della medesima legge) – anche i dirigenti sarebbero esclusi, quindi, dal divieto di licenziamento individuale per ragioni oggettive.

Qualcuno s’è chiesto, però, atteso che la ratio della norma che vieta i licenziamenti si rinviene in ragioni economico-organizzative non dettate dalle ordinarie logiche del mercato, ma da un’emergenza sanitaria nazionale, perché escludere i dirigenti?
Sottolineo, inoltre, che la giurisprudenza ha distinto due tipo-logie di dirigenti, quelli apicali, che operano come alter ego del datore di lavoro e licenziabili ove la motivazione del recesso sia quella della “giustificatezza”, e quelli non apicali, c.d. pseudo-dirigenti, vale a dire coloro i cui compiti non sono in alcun mo-do riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente, ai quali s’applica la disciplina limitativa del potere di licenzia-mento di cui alla L. 604/1966.

Certamente vietati sono i licenziamenti del dirigente (senza alcun distinguo tra apicali e non) nell’ambito d’una procedura collettiva di riduzione del personale, trovando applicazione la L. 223/1991, come modificata dalla L. 161/2014, che ha esteso tale procedura anche alla categoria dei dirigenti, al pari di tutti gli altri lavoratori.
Quanto, infine, al licenziamento per inidoneità della prestazione, rientrando esso per definizione nei casi di licenziamento per g.m.o., seppur non dipendente da ragioni economiche, ritengo che lo stesso sia vietato, a maggior ragione laddove l’inidoneità sia causata dai postumi dell’infezione da COVID-19.

Concludo, rilevando che il nuovo testo dell’art. 46 prevede un’ulteriore aggiunta, che è una novità, rispetto al testo precedente.
L’art. 83 del decreto “Rilancio” inserisce, infatti, un comma, l’1 bis, che prevede che “il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo […] può […] revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale, di cui agli articoli da 19 a 22, a partire dalla data in cui ha efficacia il licenzia-mento. In tal caso, il rapporto si intende ripristinato senza solu-zione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro”. (EP)

 

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