La reintegra del lavoratore licenziato nel c.d. regime a tutele crescenti | Studio Legale Menichetti

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Il D.l.gs. n. 23/2015, introducendo il regime delle c.d. tutele crescenti, ha limitato la reintegra ai casi di licenziamento nullo, inefficace (perché in forma orale) e discriminatorio, nonché nelle ipotesi in cui sia accertata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale che dovrebbe stare alla base del recesso datoriale per giusta causa o giustificato motivo. In tutte le altre fattispecie di licenziamento il Legislatore ha invece previsto esclusivamente un indennizzo economico, la cui determinazione è rapportata unicamente all’anzianità del lavoratore: di regola, due mensilità per ogni anno di servizio prestato.

Per tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, dunque, le ipotesi di reintegra sono disciplinate dall’art. 2 del D.lgs. 23/15, che, analogamente a quanto previsto dall’art. 18, commi 1 e 2 della legge 300/70, contempla il licenziamento discriminatorio e nullo, prevedendo, solo per tali ipotesi, la tutela reintegratoria. Ma l’art. 2 D.lgs. 23/15, si differenzia dall’art. 18 co. 1 Legge 300/70, per l’assenza di una specifica elencazione delle ipotesi di nullità.

L’art. 18 infatti, recita: “Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. … Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale”.

Il sopra citato articolo 2 del D.lgs. 23/15, invece, recita: “Il giudice con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto”.

Secondo l’orientamento al momento prevalente, pure nei rapporti di lavoro a tutele crescenti la tutela reintegratoria si applicherebbe in tutte le ipotesi indicate nell’art. 18, comma 1 St. Lav. e dunque anche al licenziamento discriminatorio di cui all’art. 3 Legge 108/90, al recesso datoriale in concomitanza di matrimonio ai sensi dell’art. 35 D.lgs. 198/2006, nonché al licenziamento intimato a lavoratrice in gravidanza o entro l’anno dalla nascita del bambino, quindi in violazione dell’art. 54 D.lgs. 151/01.

L’intenzione del Legislatore del 2015 è quella di escludere invece dall’ambito applicativo dell’art. 2, i casi c.d. “di nullità virtuale del licenziamento”, non rientrando dunque nella tutela reale quel recesso datoriale - tra cui, ad esempio, quello intimato nei confronti di lavoratori che si astengono dal lavoro in violazione delle norme di legge, ex art. 4, comma 1, L. n. 146/1990 - che pur essendo contra legem non è tuttavia dichiarato espressamente nullo dal Legislatore.

In ragione del carattere residuale riconosciuto alla tutela reintegratoria, il Tribunale di Milano, sez. lavoro, con sentenza dell’8 aprile 2017, ha pertanto escluso la reintegrazione nelle ipotesi di licenziamento per nullità del patto di prova, non potendosi esse ritenere contemplate nei casi di motivo illecito determinante, con applicazione, in tali ipotesi, del primo comma dell’art. 3 e, dunque, della sola tutela indennitaria.

Quanto poi al licenziamento discriminatorio in senso stretto, per il quale vige sempre la reintegra, l’art. 2 D.lgs. 23/15 richiama a sua volta l’art. 15, L. n. 300/1970, rientrando dunque nell’ambito di tale fattispecie il recesso determinato da motivi di affiliazione, attività sindacale, partecipazione ad uno sciopero, motivi politici, religiosi, razziali, di lingua, di sesso, di handicap, di età, di orientamento sessuale e convinzioni personali del lavoratore, testualmente previsti da tale disposizione.

L’art. 3, secondo comma del D.lgs. n. 23/2015 disciplina, poi, quale ulteriore (rispetto ai casi già contemplati nell’art. 2) fattispecie di reintegra, quella relativa ai licenziamenti disciplinari viziati da insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.

In base alle prime interpretazioni giurisprudenziali, in conformità con il dettato letterale dell’articolo 3, comma 2 del D.lgs. 23/2015 e la sua ratio, il lavoratore che intenda beneficiare della tutela reintegratoria dovrà quindi dimostrare l’insussistenza del fatto addebitatogli (in tal senso Tribunale di Napoli, sez. lavoro, sentenza del 27 giugno 2017).

Sulla stessa linea interpretativa, il Tribunale di Monza, sez. lavoro, con la sentenza n. 190 emessa il 4 maggio 2017, ha applicato la tutela risarcitoria (e non la reintegra) in caso di contestazione disciplinare generica, stante l’impossibilità di accertare l’effettiva sussistenza materiale degli addebiti rivolti al lavoratore a causa della genericità della contestazione.

Ne consegue che, quand’anche il datore di lavoro non riesca a dare piena prova delle motivazioni alla base del licenziamento, la sanzione applicabile è unicamente quella indennitaria, dovendosi applicare la reintegra nella sola ipotesi in cui il lavoratore sia in grado di dimostrare la completa inesistenza del fatto materiale contestato.

Tale interpretazione è d’altra parte conforme, oltre che al dettato normativo dell’art. 3 D.lgs. 23/15, anche al più generale principio di cui all’art. 2097 c.c. secondo cui l’onere della prova incombe su colui che ha interesse a dimostrare in giudizio il fatto. In base al secondo comma dell’art. 3, dunque, è chi impugna il licenziamento che deve dimostrare l’insussistenza del fatto contestato.

Il Legislatore del 2015 ha altresì voluto precludere ogni possibilità di reintegra per sproporzionalità della sanzione (licenziamento) rispetto alla condotta contestata al lavoratore. In tal senso deve essere pertanto letta la precisazione normativa del secondo comma dell’art. 3, secondo cui dall’insussistenza del fatto “resta estranea ogni valutazione circa la proporzione del licenziamento”.

Coerentemente la tutela reale deve altresì escludersi in tutti quei casi in cui nei contratti collettivi sia prevista una sanzione conservativa in luogo del licenziamento. Infatti, a differenza di quanto previsto dall’art. 18, comma 4, della Legge 300/70, il secondo comma dell’art. 3, D.lgs. 25/15, non contempla più quale condizione per l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata tale ulteriore ipotesi.

Il D.lgs. 23/2015, dunque, prevedendo la reintegrazione come sanzione eccezionale in caso di illegittimità del licenziamento, non potrà che essere interpretato, nel rispetto dell’intenzione del legislatore fatta palese dal dettato normativo, con applicazione della tutela reintegratoria solo nelle limitate ipotesi ivi contemplate (LP).

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