Licenziamento disciplinare: non è (quasi) mai troppo tardi| Studio Legale Menichetti

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L’invocare la violazione del principio di immediatezza nella contestazione disciplinare è sempre più di moda tra gli avvocati dei lavoratori licenziati per giusta causa, speranzosi d’ottenere, almeno per tale via, quella reintegra in servizio che, a seguito delle recenti riforme legislative, non è più l’unico rimedio alla illegittimità del recesso datoriale.

Anche quando la contestazione succede solo di qualche settimana il verificarsi del fatto incriminato, il lavoratore si affretta, quindi, a contestare una pretesa lentezza del datore di lavoro nel contestargli l’infrazione disciplinare. In tal modo anche il dipendente che il licenziamento se lo sarebbe ampiamente meritato con un contegno gravemente inadempiente, si gioca sul piano formale le sue chances di reintegra.

Questa possibilità, si badi bene, vi è ancor oggi, nonostante la modifica dell’art. 18 St. lav. (intervenuta con la L. 92/2012) e l’epocale passaggio da un sistema sanzionatorio imperniato sulla sola reintegra, ad un sistema ove le reazioni al recesso datoriale illegittimo risultano modulate a seconda della tipologia di vizi ravvisati, con le precisazioni, però, che si esporranno in ultimo con riguardo ai licenziamenti cc.dd. Jobs Act.

Tralasciando volutamente, in questa sede, il dibattito inerente l’accezione in senso materiale piuttosto che giuridica del “fatto contestato”, constatiamo infatti come oggi la reintegra sia possibile solo quando si ravvisa l’insussistenza del fatto contestato (cfr. artt. 18, comma 4 St. Lav. e 3, co. 2 d.lgs. 23/2015), potendosi altrimenti riconoscere al lavoratore una mera indennità economica (vedasi gli artt. 18, comma 5 St. Lav. e 3, co. 1 d.lgs. 23/2015).

Ciò premesso, prima di approfondire quegli argomenti che, di recente, hanno portato parte della giurisprudenza a riconoscere la tutela reintegratoria in caso di violazione del principio di immediatezza nella contestazione, è certamente utile chiarire quali siano i valori tutelati dal principio in esame. Solo così facendo, a nostro avviso, si può comprendere la vera ragione per cui il datore di lavoro deve affrettarsi a contestare e sanzionare le infrazioni del dipendente, accedendo così alle chiavi di lettura del dibattito in corso e, tramite esse, gestire nel miglior modo possibile il rischio di reintegra, ad oggi non eliminabile allorquando venga ravvisata la violazione del principio di immediatezza.

Venendo allora alla ratio del principio de quo, si può dire che esso, da un lato, assicura al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività (è evidente, infatti, che il passare del tempo rende più difficoltosa la ricostruzione dei fatti) e, dall’altro, tutela il legittimo affidamento che il dipendente può aver riposto nella mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile.

Chiariamo meglio questa seconda situazione tutelata: ciò che si aspetta il lavoratore, in sintesi, è che il datore di lavoro si comporti secondo buona fede e correttezza (cfr. artt. 1175 e 1375 cod. civ.), ovvero che gli renda subito evidente se ha o meno intenzione di sanzionarlo allorché sia venuto a conoscenza dell’infrazione commessa. Per fare ciò (non ingenerando nel lavoratore l’affidamento di cui sopra), il datore ha quindi l’onere (se non l’obbligo) di avviare rapidamente la procedura disciplinare, potendo altrimenti il lavoratore ritenere di essere stato “perdonato” per fatti concludenti.
Individuati e compresi i due valori tutelati dal principio d’immediatezza, si può allora procedere a una più accorta disamina dei due contrapposti indirizzi giurisprudenziali oggi al vaglio delle SS.UU. Orientamenti che dalla violazione del principio d’immediatezza fanno discendere sanzioni diametralmente opposte: reintegra o indennità risarcitoria.

Come si può leggere nell’ordinanza di rimessione alle SS.UU. della Suprema Corte (ord. n. 10159 del 21.04.2017), vi è, infatti, un primo orientamento (rappresentato dalla sentenza n. 2513/2017) che predilige il rimedio della reintegra, ravvedendo nel ritardo della contestazione o del licenziamento un’implicita manifestazione datoriale di voler comunque proseguire il rapporto per scarsa importanza dell'inadempimento. Il secondo orientamento, invece, ritiene congrue conseguenze meramente indennitarie (art. 18, c. 5 o 6, St. Lav. a seconda della fattispecie concreta), argomentando che la tardività non atterrebbe sotto alcun profilo all’insussistenza del fatto contestato, bensì riguarderebbe solo il rispetto del principio generale di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto di lavoro.

Orbene, nell’attesa che le SS.UU. risolvano e chiariscano questo contrasto, appare congruo auspicare che si vada nel senso d’escludere l’insussistenza (giuridica) del fatto contestato e annessa sanzione di reintegra, nel caso di mera violazione (rigidamente accertata, e non solamente data per presupposta) del diritto di difesa del lavoratore correlata alla tardiva contestazione d’addebito. Ciò per il semplice fatto che, nonostante la predetta eventuale violazione, il datore di lavoro avrebbe pur sempre la possibilità di dimostrare in giudizio la sussistenza del fatto contestato, nella sua componente tanto materiale quanto giuridica.

Per il diverso caso in cui, invece, da una ritardata contestazione dei fatti, o da una tardivo licenziamento, derivi la violazione dell’affidamento del lavoratore (a prescindere, quindi, che si presenti o meno la contemporanea violazione dell’altro valore tutelato, ossia il diritto di difesa del lavoratore), è prefigurabile forse un maggior rischio di reintegra. Del resto, se dopo aver appurato la tardività della contestazione, un giudicante si convincesse che, per fatti concludenti, il datore di lavoro abbia inteso comunque proseguire il rapporto (nonostante la piena cognizione dell’illecito, come nel caso portato davanti a Cass. 10159 cit.), è plausibile che possa spingersi al punto di ravvisare l’insussistenza di un fatto avente rilevanza disciplinare, con conseguente riammissione in servizio del lavoratore prima espulso.

Ebbene, a fronte del prospettato scenario, ma, anche più in generale, al fine di arginare il rischio d’una reintegrazione del lavoratore inadempiente, che possa considerarsi “perdonato” a causa dell’elevato spatium deliberandi del suo datore di lavoro (pur onerato d’effettuare un’accurata indagine sui fatti controversi), è senz’altro consigliabile, in primo luogo, adottare tutte quelle cautele idonee ad evitare che in capo al prestatore di lavoro s’ingeneri un ragionevole e legittimo affidamento circa l’irrilevanza disciplinare della propria condotta.

Al fine di prevenire la formazione di questo affidamento durante il tempo necessario ad ottenere una piena contezza dei fatti disciplinarmente rilevanti (tenendo comunque presente che tra l’interesse del datore all’acquisizione di elementi a conferma della sicura colpevolezza del lavoratore ed il diritto del dipendente a compiutamente difendersi, prevale quest’ultimo, come affermato, inter alia, da Cass., 24.05.2017, n. 13018), potrebbe essere utile allora ricorrere all’istituto della sospensione cautelare (previsto anche da alcuni C.C.N.L.), allontanando temporaneamente il lavoratore dall’azienda (pur mantenendogli inalterato il trattamento retributivo), in attesa dello svolgimento della procedura disciplinare.

Al fine di prevenire la possibile lesione dell’altro valore tutelato dal principio d’immediatezza, ovvero il diritto di difesa del lavoratore, potrebbe peraltro giovare lo sviluppo di procedure interne (specialmente in industrie ad elevata automazione od informatizzazione dei processi produttivi) che agevolino il reperimento e l’analisi di tutte le informazioni necessarie a circostanziare e comprovare l’addebito da contestare. E sempre nella prospettiva di scongiurare l’accusa di lesione del valore in esame, si potrebbe finanche caldeggiare che il confronto col lavoratore nell’ambito del procedimento disciplinare si impronti alla massima trasparenza (in ossequio agli immanenti principi di buona fede e correttezza contrattuale previsti dagli artt. 1175 e 1375 del codice civile), offrendogli, ad esempio, la possibilità di aver copia di quella documentazione, cartacea o informatica, che gli possa risultare utile alla ricostruzione dei fatti.

Sia consentita, infine, un’ultima considerazione di sistema, che rende ancor più attuali le riflessioni sin qui esposte. Infatti, se gli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati dovessero caratterizzarsi in senso “sostanzialista” (ovvero ritenere che la tardività della contestazione o sanzione attenga al profilo dell’insussistenza del fatto), acquisterebbero importanza tutt’altro che secondaria (ed anzi potrebbero costituire l’appiglio principale dei ricorrenti licenziati) in tutte le situazioni alle quali sia applicabile il D. Lgs. 23/2015 le cui tutele sono, anche quantitativamente, inferiori ai minimi di cui alla normativa previgente.

Del resto, com’era stato presagito dai primi commentatori della novella legislativa e come si sta confermando nelle aule dei tribunali, a fronte della previsione della tutela reintegratoria come evenienza eccezionale rispetto alla regola del riconoscimento del solo indennizzo economico parametrato all’anzianità di servizio del lavoratore licenziato, la tendenza di taluni operatori (avvocati e magistrati) sembra diretta a far entrare dalla finestra ciò che il legislatore aveva fatto uscire dalla porta. In altre parole, i giuristi che avversano le riforme che hanno ridimensionato la portata dell’articolo 18 tenderanno ad allargare per via interpretativa le maglie della tutela reintegratoria, estendendola anche a fattispecie nelle quali essa non dovrebbe spettare (o, finora, non è mai spettata) al collaboratore gravemente indisciplinato; ciò, per l’appunto, interpretando estensivamente la nozione di insussistenza del fatto, entro la quale rischia, ad oggi, di rientrare anche la variante del fatto materialmente e giuridicamente esistente, ma contestato o sanzionato tardivamente. (MB-ET)

 

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