Licenziamento ritorsivo: è da provare anche la volontà ritorsiva del datore di lavoro| Studio Legale Menichetti

Magazine

La Cassazione, con sentenza 9 giugno 2017 n. 14456, ha stabilito che il licenziamento ritorsivo è nullo solo se il lavoratore riesce a dimostrare che il recesso è conseguenza di una rappresaglia: gli è stato cioè intimato solo in conseguenza di un suo comportamento sgradito al datore di lavoro ed è quindi conseguenza di un motivo illecito esclusivo e determinante. Va quindi provata anche la volontà datoriale di licenziare il dipendente solo per reazione a comportamenti legittimi dello stesso, quali, ad esempio, l’aver chiesto differenze retributive dovutegli o l’aver rifiutato un demansionamento.

Il licenziamento ritorsivo, sempre secondo la Suprema Corte, è da distinguersi dal recesso discriminatorio, che si fonda sulla violazione oggettiva di specifiche norme ed è motivato da ragioni di credo politico o religioso, razziali, di età, di handicap, di lingua o di sesso, nonché da convinzioni personali o da attività sindacali del dipendente.

Il licenziamento discriminatorio deve essere provato dal lavoratore, anche con il ricorso a presunzioni; ma non è necessario dimostrare la sussistenza dell’elemento soggettivo, cioè della volontà del datore di lavoro di discriminare il dipendente.

Ruota il dispositivo!