Passato, presente e futuro del diritto sindacale - Intervista avv. Claudio Damoli| Studio Legale Menichetti

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Lo studio Menichetti può vantare quasi quarant’anni di esperienza nei settori del diritto del lavoro e della previdenza sociale, sindacale e sui contratti di distribuzione commerciale. Cosa è cambiato, soprattutto dal punto di vista normativo, in questi decenni?

Il diritto del lavoro ha avuto e sta avendo una grossa evoluzione. Il diritto del lavoro degli anni ’60 e ’70, fu costruito su alcune grandi leggi che segnavano il passaggio da una fase di diritto giurisprudenziale e poco scritto, quantomeno con riferimento alla disciplina del rapporto di lavoro, alla fase delle normazione dei fenomeni più importanti, ricordo la legge sui licenziamenti del 1966, ma prima ancora la legge sull’intermediazione di manodopera del 1960, ora abrogata dalla Legge Biagi, la legge sulla tutela dei diritti sindacali in azienda, il c.d. Statuto dei lavoratori, del 1970, e la legge sulla tutela della maternità del 1971 e nel 1977, recependo già allora una Direttiva Comunitaria, una delle prime leggi sulla discriminazione uomo donna, per alcuni versi misconosciuta ed invece potenzialmente molto efficace.

Negli stessi anni si costruiva anche l’intelaiatura moderna del diritto previdenziale, peraltro già in essere con una grande tradizione normativa se solo si consideri che ancora oggi la struttura del rapporto previdenziale attinge ad una solida normativa del 1936.

Ci fu, infatti, una importante e ancora vigente legge del 1969 per la disciplina del rapporto previdenziale e il Testo Unico sugli infortuni del lavoro nel 1965.

Passata questa stagione, però, durante la quale il legislatore dava l’impressione di avere sufficiente chiarezza in merito ai propri obiettivi, buoni o cattivi che fossero, si è avuta quella che io considero una legislazione assolutamente inadeguata e sempre dettata da una sorta di “emergenza” continua, con il legislatore che invece di segnare i tempi dello sviluppo normativo in un quadro organico, ha invece iniziato ad inseguire i problemi, con esiti nefasti sia sotto il profilo di una legislazione priva di impianto sistematico utile per l’interprete al fine di risolvere i nodi della quotidiana applicazione concreta delle norme, sia sotto il profilo della tecnica di redazione del testo normativo. Non a caso, infatti, fondamentali passaggi di normazione del diritto del lavoro e soprattutto del diritto previdenziale, con la sola eccezione, forse, della riforma del 1995, sono avvenuti con inserimento di decine di commi in maniera disorganica nel contesto delle leggi finanziarie di fine anno.

Una vera iattura per l’interprete prima che per il cittadino e, per noi avvocati giuslavoristi, una fatica immane nella ricerca di risposte adeguate alle esigenze di certezze che la clientela giustamente ci sottopone nella quotidianità del nostro lavoro. Le imprese, infatti, chiedono di potere operare con sufficienti margini di certezza in relazione alla legittimità della propria azione nei rapporti con i lavoratori, oltre che nelle relazioni sindacali, ma nella congerie di norme sovrapposte ed a volte contraddittorie, alle quali si sovrappone un diritto giurisprudenziale che spesso non ha statura sufficiente a dirimere i problemi interpretativi più scottanti, è davvero difficile dare risposte adeguate ed affidabili. In realtà, infatti, laddove, nel bene o nel male, sino alla fine degli anni ’80, e prima quindi che entrassero a regime tutte le innovazioni normative e giurisprudenziali di quegli ultimi anni, si poteva con sufficiente tranquillità dare delle risposte, dopo è diventato molto più difficile distinguere in termini certi ciò che era legittimo e ciò che non lo era. Questa situazione si è aggravata negli anni ’90, anche a fronte di una ulteriore sovrapproduzione di norme dettata dalla necessità, apparente dico io e per molti casi, di adeguamento del nostro ordinamento all’ordinamento comunitario.

Caso emblematico, a questo proposito, è infatti il contenzioso relativo alle indennità di fine rapporto nel contratto di agenzia, contratto di assoluto rilievo nell’ambito dei contratti c.d. di distribuzione e del quale il nostro Studio da sempre si occupa per affinità processuale con il diritto del lavoro classico, in quanto spesso il contenzioso dell’agente si propone avanti il Giudice del Lavoro. Negli anni ’90, infatti, si consolidò un rilevantissimo filone di contenzioso sostanzialmente dovuto al recepimento in Italia di normative non coerenti con la nostra tradizione giuridica che già da molti anni prevedeva ampie tutele per gli agenti, che già dagli anni ’30 nel nostro paese potevano contare anche su un consolidato fenomeno di sindacalizzazione. Per quanto riguarda il diritto del lavoro, invece, fonte di grossa incertezza fu (ma in buona parte è tuttora, pur dopo un raffazzonato intervento normativo sul punto) la questione relativa alla indennizzabilità a carico dell’azienda del danno biologico da infortunio, pur a fronte di una assicurazione infortuni obbligatoria per legge e conseguenti prestazioni a carico dell’INAIL. Ciò che, però, rende la situazione davvero desolante è scoprire che, a distanza di quasi 20 anni dall’esplodere di questi fenomeni, e pur dopo molteplici interventi normativi e di contrattazione collettiva su entrambi i casi che ho preso ad esempio di difficoltà interpretativa, il nocciolo dei problemi è ancora sul tavolo irrisolto, tant’è che si parla di nuovo intervento normativo in tema di risarcibilità del danno biologico da infortunio.

Quali sono a suo parere i fenomeni più vistosi di incertezza normativa e di difficoltà per l’interprete nell’affrontare i problemi di attuazione pratica del diritto del lavoro?

Per rispondere a questa domanda farò solo un rapido esempio. Nel 2001, dopo molte discussioni ed in funzione della necessità di introdurre una maggiore flessibilità nel diritto del lavoro e, in particolare, nel ricorso al contratto a tempo determinato, fu introdotta una nuova legge, il D. Lgs. N. 368/01, che ampliava i casi in cui si poteva ricorre alla stipula di un rapporto di lavoro a termine e, soprattutto, modificava nella sostanza la prospettiva di sistema che, sino a quel momento, in forza di una legge del 1962, vedeva come regola generale la stipula di un contratto a tempo indeterminato e come eccezione quella del contratto a termine. 6 anni dopo, con l’attuazione del Protocollo Welfare, si ritorna invece alla regola del 1962, abrogando sostanzialmente il mutamento di ratio del voluto nel 2001!

In base alla sua esperienza come legale come valuta l’attuale situazione del contenzioso giuslavoristico?

Circa, invece, l’ampia discussione che è incorso in merito alla idoneità dello strumento processuale a far fronte a questi fenomeni di contenzioso, e dunque al tema dei nuovi interventi normativi che qualcuno reputa necessario per aggiornare la nostra disciplina processuale e lavoristica in genere, ebbene io personalmente sono dell’idea che sia assolutamente da evitare un ampio intervento di riforma del processo del lavoro. Credo che questo processo sia quanto di meglio il legislatore italiano ha prodotto nella disciplina processuale civile in tutto il dopoguerra. Si tratta di regole ben scritte, quasi sempre ben interpretate dal giudice di legittimità ed efficaci per riuscire a dare giustizia a tutti i casi che si possono presentare.

Ovviamente, come tutti gli strumenti evoluti, nonostante la sua introduzione nel nostro ordinamento risalga al lontano 1973, ha bisogno di interpreti professionalmente preparati, basti dire che in questo processo sono vietate le udienze di mero rinvio e, teoricamente, tutte le udienze potrebbero essere udienze di discussione della causa. Ciò significa che l’avvocato, ma anche il Giudice, dovrebbero essere pronti ad ogni udienza a chiudere il contenzioso, e ciò in applicazione dei principi di oralità ed immediatezza che contraddistinguono questo processo.

Come valuta il problema della lungaggine dei processi e, in particolare, della difficoltà di dare giustizia in tempi adeguati anche nel peculiare settore dei rapporti di lavoro?

Le motivazioni che vengono addotte per dire che questo processo non funziona, tant’è che in questa legislatura si era in fetta e furia approntata addirittura una legge di riforma, che rappresentava a mio modesto parere un intervento davvero pericoloso e destabilizzante in questa delicata materia, non mi paiono condivisibili in quanto ritengo che lo strumento processuale in essere possa sì avere bisogno di qualche leggero ritocco ma non ha certamente bisogno di una sua integrale riforma. Se il rito fosse applicato con il rigore che contraddistingueva le prime fasi di sua concreta attuazione da parte degli operatori, in particolare da parte del Giudice che è sovrano nel dettare i tempi di questo processo, molte anomalie che si sono venute a creare nel tempo scomparirebbero e sarebbero superate: credo che sia sostanzialmente solo un problema di scelta a monte e di carattere strategico in quanto se si vuole fare giustizia sui grandi numeri, sino a che il contenzioso non rientri in un limite fisiologico in linea con i limiti presenti negli altri paesi europei, il rigore nell’utilizzo dello strumento processuale deve essere massimo e deve funzionare il regime di preclusioni e decadenze che il legislatore ha giustamente introdotto nel 1973, fiducioso nella professionalità e capacità degli operatori del diritto, giudici ed avvocati. Se ciò avvenisse penso che la mole di contenzioso attualmente in essere si ridurrebbe drasticamente e questo sarebbe il più efficace mezzo deflazionistico che si possa immaginare. Non ci sarebbe bisogno di alcune riforma ed il legislatore potrebbe tranquillamente dedicarsi ad altro di più urgente. Credo che, mutatis mutandis, sia ciò che si può sostanzialmente dire anche con riferimento alla nostra legislazione in tema di sicurezza sul lavoro, laddove non c’è bisogno di alcun nuovo intervento normativo, ma semmai di un intervento (che si sta facendo) di razionalizzazione dell’esistente, ma solo di una adeguata implementazione dei controlli circa il rispetto delle norme di legge.

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