Periodo di comporto: chiesta alla Corte di Giustizia UE la certezza del diritto che non c’è, a favore delle aziende e dei lavoratori disabili.| Studio Legale Menichetti

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Con ordinanza del 4 gennaio 2024, il Giudice del Lavoro di Ravenna ha chiesto alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea di pronunciarsi sulla legislazione italiana, che non prevede, per ciò che concerne la durata del periodo di comporto, una disciplina differente tra lavoratori qualificabili come disabili e dipendenti che non lo sono.

 

Con ordinanza del 4 gennaio 2024, il Giudice del Lavoro di Ravenna, dott. Dario Bernardi, ha chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi sulla legislazione italiana relativa alla computabilità nel periodo di comporto delle assenze dal lavoro causate da patologie invalidanti.

Come è noto, il periodo di comporto è quel lasso di tempo, previsto dall’art. 2110 c.c. e quantificato dai contratti collettivi, durante il quale i lavoratori hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro nonostante la malattia che li sta affliggendo.

I contratti collettivi italiani, come giustamente osserva il Tribunale, prevedono durate del periodo di comporto uguali per tutti i dipendenti appartenenti alla categoria di riferimento, senza distinguere tra non disabili e disabili; non prevedono, insomma, alcun tipo di particolarità per quanto riguarda in generale questi ultimi lavoratori.

Questa formale e apparente parità di trattamento costituirebbe però, secondo gli orientamenti presi dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea a partire dal 2013,  una sostanziale disparità a danno del dipendente disabile, il quale, a causa della fragilità insita nelle sue problematiche di salute, è posto in una situazione di svantaggio rispetto agli altri lavoratori, visto il maggior rischio, su di lui incombente, di accumulare molti giorni di assenza e di così superare più facilmente il periodo di comporto previsto come uguale per tutti. Il tutto in violazione della Direttiva CE n.78/2000, relativa alla tutela dei lavoratori disabili, recepita in Italia con d.lgs. n. 216/2013.

L’applicazione indifferenziata del medesimo periodo di comporto ai lavoratori disabili e ai lavoratori che non lo sono costituirebbe, quindi, una tipica discriminazione indiretta, che si ha quando una norma apparentemente neutra può mettere in una posizione di particolare svantaggio una certa categoria di persone: nel caso di specie  i portatori di handicap.

Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, fatto proprio anche dalla Suprema Corte (cfr. Cass. 9095/2023), il licenziamento del lavoratore, che, a causa della disabilità, superi l’ordinario periodo di comporto, deve essere dichiarato nullo, in quanto discriminatorio, con tutte le conseguenze reintegratorie e risarcitorie previste da nostro ordinamento, nonostante la normativa vigente, a tutela della privacy del lavoratore, escluda che il datore di lavoro possa venire a conoscenza delle diagnosi correlate alle malattie che colpiscono i suoi dipendenti e che vengono attestate per l’appunto da certificati privi di diagnosi.

Il datore di lavoro, pur essendo impossibilitato a distinguere le assenze dovute da malattia comune da quelle conseguenti a patologie invalidanti, si trova quindi ad essere esposto a obblighi risarcitori svincolati dall’esistenza di un elemento soggettivo (dolo o colpa) e quindi da una qualche sua responsabilità nel prodursi della pretesa discriminazione. Il tutto in palese violazione dei principi generali del nostro ordinamento, siccome riassunti nell’art. 2043 c.c., oltre che dall’antico brocardo secondo il quale ad impossibilia nemo tenetur.

In effetti, il Giudice del lavoro di Ravenna non nasconde affatto di ritenere insussistente la discriminazione indiretta enunciata invece dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale. Le sue perplessità nascono, infatti, dal considerare come il datore di lavoro sia soggetto alla ricordata disciplina sulla privacy e si consolidano nell’osservare come i periodi di comporto rimessi dalla legge alla determinazione dei contratti collettivi, salvaguardando il lavoratore ed impedendone il licenziamento per le assenze di lungo periodo (nella fattispecie concreta  sottoposta all’esame del Tribunale di Ravenna: 180 giorni, con facoltà, per il lavoratore, di chiedere una aspettativa non retribuita di altri 120 giorni) appaiono già in tutta evidenza strutturati ab origine per tutelare non il dipendente affetto da malattie brevi, saltuarie o passeggere, bensì proprio il lavoratore disabile, se è vero -come è vero – che la nozione di disabilità (o handicap) prevista dalla Direttiva 200/78 citata coincide con le limitazioni di lunga durata, cioè con tutte le malattie, curabili o incurabili, che possano considerarsi durature e non presentino una prospettiva di guarigione nel breve periodo (cfr. CGUE HK Danmark 11.4.2013 c-335/2011 e 337/2011; cfr. anche CGUE 1.12.2016, Daouidi, in c-395/2015).

In ogni caso, pur consapevole di andare controcorrente, il Tribunale remittente, con la sua interessante e opportuna ordinanza, ha ragionevolmente sollecitato dei chiarimenti volti a superare le criticità riscontrate, chiedendo alla Corte di Giustizia di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267 del Trattato per il Funzionamento dell’Unione Europea, sulle seguenti questioni:

  • se la direttiva CE 2000/78 sia di ostacolo ad una normativa nazionale che, pur non prevedendo una disciplina differente per lavoratori qualificabili come disabili e lavoratori che non lo sono, stabilisca comunque lunghi periodi di comporto e/o di aspettativa, in tal modo tutelando proprio i dipendenti disabili in quanto soggetti a malattie di lunga durata;
  • se la normativa nazionale, seppur astrattamente considerata come integrante una discriminazione indiretta, non sia comunque oggettivamente giustificata da una finalità legittima e se i mezzi impiegati per il suo conseguimento non siano appropriati e necessari;
  • se un accomodamento ragionevole, idoneo e sufficiente a evitare la discriminazione, possa essere rappresentato dalla previsione di un’aspettativa non retribuita a richiesta del lavoratore, che dovrebbe però rinunciare alla sua privacy rivelando la diagnosi correlata al suo stato di disabilità;
  • se possa ritenersi ragionevole un accomodamento consistente nel dovere il datore di lavoro concedere al lavoratore disabile, alla scadenza del periodo di comporto (sempre a fronte del disvelamento della diagnosi), un ulteriore periodo retribuito integralmente a carico dell’azienda, senza ottenere una controprestazione lavorativa;
  • se, al fine di valutare il comportamento discriminatorio del datore di lavoro e stabilire la legittimità o meno del licenziamento, possa valutarsi il permanere dello stato di malattia anche dopo la scadenza del periodo di comporto e il decorso dell’ipotetica ulteriore aspettativa, retribuita o meno, con conseguente impossibile rientro al lavoro del disabile.

L’ordinanza in commento, sembra quindi sollecitare un mutamento di rotta o, in subordine, un ragionevole inveramento della prospettata diversa durata dei periodi di comporto, che consenta una maggiore certezza del diritto in relazione alla verifica della legittimità dei licenziamenti dovuti al superamento di detti periodi. E lo fa ipotizzando soprattutto aspettative retribuite e non retribuite.

Ma queste ultime non garantiscono il disabile che non sia anche abbiente, mentre l’aspettativa retribuita integralmente a carico del datore di lavoro non mitiga invece la gravosità per quest’ultimo della disciplina inerente la materia in questione. 

A sommesso parere di chi scrive e de iure condendo, solo la effettiva – ma chiara e ragionevole - previsione di un periodo di comporto diverso per i lavoratori disabili potrebbe garantire la certezza del diritto e tutelare effettivamente questi ultimi senza penalizzare i datori di lavoro incolpevoli. Il tutto con gli opportuni interventi statali e/o della contrattazione collettiva, sia per ciò che concerne una più precisa definizione della nozione di disabile (con previsione della durata e/o dei tipi di malattia che fanno scattare il relativo status) sia in relazione alla durata dei periodi di comporto, al fine di non scaricare solo sulle imprese tutti gli oneri economici della pur inderogabile tutela solidaristica (art. 32 Costituzione), nonché i pesanti fardelli (che graverebbero anche sui lavoratori, in termini di incertezza sul futuro e conseguenti preoccupazioni) delle dubbie interpretazioni normative e degli incerti obblighi giuridici.

Al riguardo, ritengo di poter osservare che ad una simile innovazione non osterebbe affatto, come qualcuno potrebbe forse paventare, la tematica della privacy in quanto, ai sensi dell’art. 6 del  vigente GDPR (Regolamento UE 2016/679), la conoscenza da parte del datore di lavoro delle diagnosi inerenti le malattie del lavoratore che intenda far valere il suo stato di disabilità ai fini di un più lungo periodo di comporto sarebbe da considerarsi del tutto lecita, ricorrendo più condizioni previste dalla norma citata quali basi giuridiche del trattamento dei dati sensibili in questione: l’interessato esprimerebbe, infatti, il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche (legittime e a lui favorevoli) finalità (cfr. lettera a, primo comma, art. 6); il trattamento sarebbe comunque  necessario ai fini dell'esecuzione del contratto di lavoro in modalità tutelante per il disabile (cfr. lett.b); sarebbe inoltre necessario per adempiere un obbligo legale al quale soggiacerebbe il datore di lavoro (cfr. lett. c), correlato alla salvaguardia degli interessi vitali del dipendente interessato e della sua famiglia (cfr. lett.d) e ai fini del perseguimento del legittimo interesse del lavoratore disabile a non perdere il posto di lavoro (cfr. lett.f).

In ogni caso, osservato quanto sopra, non resta che attendere fiduciosi la decisione della Corte di Giustizia, nella speranza che la stessa arrechi vantaggio alla certezza  del diritto, siccome messa in pericolo, come evidenziato dall’ordinanza 4 gennaio 2024, dagli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati. (LC)

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