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10 Aprile 2025

La Consulta incompresa

La recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 77 del 19 aprile 2018) non ha affatto esonerato il lavoratore dal rimborsare le spese legali a controparte nel caso di soccombenza.
Leggendo i quotidiani e navigando in internet ci siamo imbattuti nella notizia secondo la quale il lavoratore soccombente non sarebbe più tenuto a pagare le spese legali dovute al datore di lavoro contro il quale ha agito giudizialmente. Ciò in quanto la Corte Costituzionale, con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018, avrebbe dichiarato la incostituzionalità dell’art. 92 c.p.c., nella parte in cui non considera il lavoratore che radica la causa di lavoro come parte debole e quindi non tenuta a rimborsare le spese di controparte se le pretese da lui avanzate sono infondate.
Niente di più falso. Quella sopra riportata era l’opinione della CGIL, il cui intervento è stato addirittura dichiarato inammissibile, e del Tribunale di Reggio Emilia, dal quale la Consulta si è espressamente discostata, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale sul punto ed accogliendo le sole diverse prospettazioni comuni al Tribunale di Torino.
Ma facciamo un passo indietro, ricordando a noi stessi che la regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile non dovrebbe essere demandata all’arbitrio del giudicante, rispondendo alla regola generale victus victori fissata dall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui – ripetendo l’analoga prescrizione dell’art. 370, primo comma, del codice di procedura civile del 1865 – prevede che “il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”.
Quindi la soccombenza si accompagna, di norma, alla condanna al pagamento delle spese di lite, in quanto appare corretto, in base al principio di responsabilità sempre richiamato dalla Consulta, che l’alea del processo gravi sulla parte soccombente: che il costo dello stesso venga cioè sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed abbia occasionato le spese del suo svolgimento (cfr. sentenza n. 135 del 1987). Di conseguenza, appare giusta sul piano logico, prima che giuridico, la liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa (cfr. sentenza n. 303 del 1986), che non dovrebbe subire pregiudizio per la causa ingiustamente subita.
Ciò detto, è anche vero che l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità, con compensazione delle spese nei casi previsti dalla legge. E la Corte Costituzionale, in passato, è sempre stata generosa nel riconoscere la discrezionalità del Legislatore nel dettare norme processuali che stabilissero deroghe all’istituto della condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, (ex plurimis, cfr. sentenze n. 157 del 2014, n. 270 del 2012, n. 446 del 2007, n. 158 del 2003, n. 117 del 1999 e n. 196 del 1982).
A sua volta il Legislatore è stato a lungo generoso nel riconoscere al giudice, che meglio conosceva le peculiarità della causa da decidere, una ampia facoltà di compensare le spese di lite in tutti i casi nei quali, secondo il suo prudente apprezzamento, ravvisasse i “giusti motivi” citati dall’art. 370 cod. proc. civ. del 1865 e dal secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. del 1940.
Ma la discrezionalità concessa dall’eccezione dei “gravi motivi”, nella pratica applicativa, ha portato ad un larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivazione della litigiosità, posto che la soccombenza perdeva un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risultava aver avuto ragione.
Ed ecco che, col fine principale e dichiarato di ridurre la mole del contenzioso (un fine che ha ispirato nuovi istituti come la mediazione e la negoziazione assistita, nonché la previsione di una proposta conciliativa “formulabile formalmente” dal giudice del lavoro ai sensi del novellato art. 420, primo comma, cod. proc. civ.) il Legislatore si è al fine deciso a ridurre la discrezionalità del giudice con una serie di provvedimenti, l’ultimo dei quali ha partorito il testo oggi in vigore ed oggetto di censura avanti alla Consulta: Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero”.
La compensazione delle spese di lite anche nel caso di soccombenza di una sola parte è quindi possibile – stando alle previsioni del vigente art. 92, secondo comma, c.p.c. – non più in base alla clausola generale – e generica – delle “gravi ed eccezionali ragioni”, ma solo nelle due ipotesi nominate, che si aggiungono a quella della soccombenza reciproca, che non è mai mutata: l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza (soprattutto di legittimità, ma anche di merito) rispetto alle questioni dirimenti.
Contro detta limitazione della discrezionalità del giudice (sino ad ora considerata tassativa dalla giurisprudenza di legittimità) si sono pronunciati il Tribunale ordinario di Torino ed il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, rimettendo alla Consulta la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 92 c.p.c. con due diverse ordinanze di rimessione (come vedremo, solo parzialmente coincidenti), ambedue valutate e decise dalla Corte Costituzionale con la sentenza 19 aprile 2018 n. 77.
Il Tribunale di Torino (su ciò in accordo con Reggio Emilia) ha ritenuto la questione di legittimità costituzionale rilevabile in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, osservando come la ratio delle due ipotesi previste dal Legislatore (cioè il sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti) sia rinvenibile non solo nei casi di novità della questione trattata e di mutamento della giurisprudenza ma anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia non addebitabile alle parti. Si pensi ad una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia della Consulta, in particolare se di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente”” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “”gravit&agrave